Lalla Romano e Alessandro Vicario, o la penombra delle affinità.

 Partire dai gesti, dagli atti, dalle figure di cui si compone la quotidianità per coglierne il segreto, il vero nascosto che è sempre «più che reale». È questo – in sintesi estrema – in nòcciolo della poetica di Lalla Romano: una delle personalità più nitide del nostro Novecento letterario. Un mondo – il suo – fatto di oggetti, paesaggi, personaggi, storie che si definiscono nell’eternità di un attimo, nella dimensione di uno spazio fisico e insieme mentale, esatto e insieme misterioso, reale e insieme immaginario, fenomenico e insieme simbolico. All’origine, sempre un moto di passione lucidamente in cerca del suo inchiostro. Sempre in gioco la precedenza per l’essenziale, l’imporsi del particolare come conoscenza emotiva del mondo, l’eternità dell’istante raccolto nel tempo, chiarezza accompagnata da sobrietà e segretezza, nudità ricca di sensi modulata sul più volte richiamato andante di Joubert: «mettere un intero libro in una pagina, una pagina in una frase e quella frase in una parola». Prima della scrittura c’è stata la pittura. Ma una pittura che è già scrittura, narrazione di quel mondo di famiglia che la scrittrice – come racconta nel libro petroso della formazione giovanile, Una giovinezza inventata – confesserà a Lionello Venturi di voler evocare. Scrittura di grana filosofica, condensata nelle parentesi, nelle parole virgolettate, nei corsivi epigrafici, negli incisi marcati, nelle dichiarazioni che si dispongono come altrettanti frammenti di un discorso (aspro e amoroso) con la memoria. La modernità di Lalla Romano è radicata nel suo raccontare per frammenti, nella sua epigrafica vocazione nietzscheana, che non a caso discende (proprio con Joubert) a toccare la modernità di fine Settecento che annuncia la possibile saldatura – come ha mostrato Anna Ottani Cavina nel suo bel volume I paesaggi della ragione (Torino, Einaudi, 1994) – tra la vocazione lineare e l’astratta purezza di certa pittura classicistica e le più inquiete ricerche dell’avanguardia di primo Novecento, dagli espressionisti a Matisse (non trascurando il «gusto» di Lionello Venturi e la sua lettura «primitiva» di Cézanne). La sempre aperta ferita dell’esperienza che si misura non tanto con il veridico (che pure c’è), ma con il mistero del vero (che sempre sfugge). Da Fiore (1941), l’esordio poetico, a Le metamorfosi (1951), l’esordio in prosa, da Maria (1953) a Tetto Murato (1957), da La penombra che abbiamo attraversato (1964) a Le parole tra noi leggere (1969), da L’ospite (1973) a Nei mari estremi (1987) da Una giovinezza inventata (1979) a Le lune di Hvar (1991), l’itinerario di Lalla Romano è un itinerario di immagini, sempre sul punto di annunciare – tra angustie e incanti – il grande tema delle affinità, degli incontri che diventano destino. Alle spalle c’è – a non risalire indietro indietro – ciò che Franco Rella (L’enigma della bellezza, Milano, Feltrinelli, 1991) ricorda con un frammento di Novalis: «noi cerchiamo ovunque l’indeterminato e troviamo sempre e solo cose». Le cose (ecco il realismo, ecco la realtà, ed ecco il punto essenziale) diventano necessarie per risalire all’indeterminato, all’altro. Le stesse che sono necessarie ai mistici per risalire a Dio, all’Alto. Il «più che reale» appunto, cui sempre l’occhio di Lalla Romano tende. Quello che si potrebbe definire – con linguaggio ben suo – il «databile» ma «non datato», un diario cui si sottraggano le date. A confermare il tutto, una scheggia (antirealistica) che sta piantata nel cuore del libro più complesso, Le parole tra noi leggere: «Trasformazione e analogia sono l’essenza dell’arte». Appunto.   In questa direzione i luoghi sono tutto. I luoghi sono i cardini di un viaggio che mira al segreto, all’estatico, al permanente. Luoghi determinatissimi, ma nello stesso tempo incantati, fiabeschi, remoti: «Per me anche i luoghi sono un po’ come delle persone». La storia è risaputa. La scrittrice che cede all’idea – questa sì, datata – di cambiare i nomi dei posti e poi si pente, ma non può più tornare indietro. Demonte – il luogo della nascita e dei ritorni più assidui – che diventa Ponte Stura, uscendo rustico e austero dalle pagine del libro più proustiano, La penombra che abbiamo attraversato. Il «Borgo Sottano», il ponte sul Cant, la strada che s’incunea tra gli abitati, scortata da due file di portici bassi. All’ingresso del paese, «in cima alla breve piazza sghemba», intitolata a Giuseppe Mazzini, la «casa» per eccellenza, la casa di abitazione di Lalla Romano bambina, «dominante su tutte», sede dell’ex «Albergo Europa» che ne occupava «due piani», con il portico e «i tre arconi profondi», le precise corrispondenze con molte delle fotografie del geometra Romano, il padre di Lalla, raccolte in Lettura di un’immagine (1975), poi diventato Romanzo di figure (1986) e nell’ultima versione ampliata, Nuovo romanzo di figure (1997). Non tutti i nomi della Penombra sono per altro cambiati, perché la frazione di Festiona è toponimo reale, così come lo è il torrente Cant, oppure Rialpo, la «borgata di mezza montagna» dove il padre «era stato messo a balia», o ancora il fascinoso Ischiatòr, il monte lontano, che con il Nebius e il Tinibras evoca «paesaggi artici, desolati e solenni», poveri come le cartoline con gli eschimesi e i cani da slitta spedite da Giovanni Oneglia in Una giovinezza inventata. Lo stesso accade con l’Albergo del Giglio (forse perché «era stato disegnato da papà»), una linda costruzione in composto stile floreale sulla Piazza Nuova, la Parrocchia con l’interno barocco, e poi il Parco (mutato solo il nome dei proprietari), il Castello (il luogo delle «merende»), il Comune o Palazzo Civico a due piani, e infine il Cimitero, «nascosto e protetto dalla collina del Castello», con la tomba d’angolo di cui parla in Nei mari estremi (1987): la croce scavata nella pietra, i due nomi incisi, quello del marito Innocenzo e quello della scrittrice, già ben prima della morte, come lei stessa nel libro racconta: «Avevo detto al geometra che volevo anche il mio nome sulla tomba». Tutto questo ora Alessandro Vicario ha incontrato a modo suo. Nel profondo rispetto di una poetica congeniale. Non lo ha fatto cercando corrispondenze reali (che pure esistono) ma lo ha fatto percorrendo la più enigmatica strada delle affinità. Manco a dirlo, mai fotografie di taglio turistico (la cronaca, l’episodio, l’aneddoto), ma lo scorcio, il particolare, il dettaglio che isolano e che evocano. Uno spunto reale – anche qui – che tende all’astrazione, alla proiezione, all’alterità. Le fotografie di Vicario non possono servire alla pratica dei parchi letterari che il turismo riserva agli scrittori, non mettono cartelli sui luoghi, non aiutano a individuare equivalenze o difformità, se non del tutto marginalmente. Lo scopo non è quello di conformarsi ad una pratica, ma di interpretare una scrittura, di trovare un’immagine che – nella sua diversità – le corrisponda. Un rapporto che va da testo a testo. Non una verifica, dunque. E nemmeno un censimento. Ma un’epifania. A modo suo – ossia attraverso il suo stile – Vicario dà figura anche lui ad un ritorno, anche lui attraversa una «penombra», che è quella di un testo amato fino a incorporarne il sentimento che l’informa. E di cercarne le tracce non attraverso un dire diretto, ma attraverso un correlativo che lo suggerisca. A far filigrana ricorrono, qui, anche le fotografie (altro testo) del geometra Romano, che compaiono a volte a corredare un passaggio. Ma, ancora una volta, non per stabilire confronti, ma per disseminare tracce, per intersecare rapporti tra l’assoluto e il relativo, per cogliere le discontinuità che accompagnano un occhio capace di inventare (ancora e sempre, come suggeriva Pavese, frequentativo di invenire). L’esattezza di Vicario è almeno pari alla sua passione creativa. Dal paese scritto al paese reale, dalla geografia emotiva a quella topica, il suo «ritorno» a Demonte non è meno necessario della partenza da Ponte Stura che l’ha ispirato. Potrei parafrasare: un moto di passione lucidamente in cerca del suo clic. Ecco perché nelle immagini di Vicario le immagini di Lalla Romano continuano a vivere e a narrare. 

Giovanni Tesio, 2006
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