Un paesaggio ritrovato

 Il paesaggio ritrovato al quale alludo nel titolo non è il paesaggio reale di Demonte e della Valle Stura. È il paesaggio - letterario e fotografico – che ho conosciuto (e amato) attraverso l'opera di Lalla Romano (e perciò anche attraverso le fotografie di suo padre Roberto Romano, che di alcune opere sono parte testuale). Non avrei potuto ritrovare Demonte e la Valle Stura, giacché non vi ero mai stato. Se non con l’immaginazione: guidato – come ho detto – dalle parole della scrittrice e dalle immagini di suo padre, «dilettante fotografo». In fondo, io ‘ero stato’ a Ponte Stura[1]. È Ponte Stura, dunque, che ho ‘ritrovato’, esplorando il territorio nel quale trascorse l’infanzia Lalla Romano.   L’idea dell’infanzia (più precisamente: l’idea dello sguardo infantile) mi è stata d’ispirazione. Lo sguardo infantile conferisce uno speciale mistero alle cose, anche alle cose più semplici e quotidiane: talora a particolari apparentemente insignificanti. Tutte le cose - a osservarle con spirito contemplativo - si rivelano cariche di mistero: e durante l’infanzia la percezione di tale mistero è più piena e immediata. Ho tentato di evocare anche questo stupore infantile, con le immagini. Alcuni soggetti li ho perfino ripresi da un’altezza che potrebbe essere quella di un bambino: il portone della chiesa di Trinità, la sedia nel salone del Comune, il mobile nell’ufficio dove lavorava il padre di Lalla Romano, la parete di fianco all’ingresso di Palazzo Borelli, e altri.   La fotografia è uno dei mezzi espressivi che meglio si prestano ad attestare il mistero delle cose: possiede un’intrinseca vocazione in questo senso. Anche quando rappresenta in maniera esplicita e realistica (o persino iperrealistica) frammenti di realtà, l’immagine fotografica si carica del mistero che essi racchiudono. La fotografia è un accostarsi alle cose, lasciando che da esse (da ciò che di esse è visibile: dalla loro apparenza) emani un poco del loro irriducibile mistero. Così, almeno, è per me.   Questo modo di intendere (e di praticare) la fotografia mi pare affine alla poetica di Lalla Romano. «Tutta la nostra vita» – scrive - «è immersa nel mistero: anche se uno è materialista non può trovar spiegato tutto. Il mistero non è un segreto. Il mistero significa qualcosa che non si può spiegare razionalmente [...]. A cominciare dalla nostra, la vita è un mistero a cui però possiamo accostarci in certi momenti.»[2] Di qui (dalla consapevolezza del limite al quale l’intelletto umano può solamente approssimarsi, senza mai oltrepassarlo) la necessità della contemplazione e, conseguentemente, la prevalenza del sottinteso (del solamente adombrato) rispetto all’esplicito (al palesemente rappresentato). «Si suole dire che la mia scrittura è ridotta all’osso: la cosa sicura è che per me è più importante il taciuto del detto. Lascio molto spazio al silenzio»[3]. Infatti: che cosa si dovrebbe dire (o, fotograficamente, che cosa si dovrebbe cercare di rappresentare), dinanzi al mistero irriducibile delle cose. Meglio tacere. Meglio lasciare che sia l’apparenza stessa delle cose a comunicarci l’oscuro, magmatico (eppure famigliare) mistero di cui esse sono depositarie.   La fotografia è il mezzo d’elezione per registrare l’apparenza delle cose. E l’apparenza - è la stessa Lalla Romano a rammentarcelo - «esprime il significato della sostanza.»[4]   

Alessandro Vicario Milano, settembre 2006

[1] Ponte Stura è il toponimo d’invenzione usato da Lalla Romano per designare Demonte, suo paese natale, ne La Penombra che abbiamo attraversato e in Ritorno a Ponte Stura.
[2] Lalla Romano, L’eterno presente. Conversazione con Antonio Ria, Einaudi, Torino, 1998, pp. 46-47. Il corsivo è mio.
[3] La frase è riportata da Antonio Ria nel saggio Scrittura e fotografia, pubblicato in Lalla Romano, Nuovo Romanzo di figure, Einaudi, Torino, 1986, p. 365.
[4] Lalla Romano, In vacanza col buon samaritano, Einaudi, Torino, 1997, p. 96.

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