“Cos’è essenziale, nei ricordi e nelle rievocazioni? Ciò che sarà colto, rivissuto da chi non c’era", così scriveva Lalla Romano. Questa grande scrittrice ha sempre raccontato di sé, della propria esperienza personale, del proprio ambiente famigliare e delle persone a lei care. Tuttavia non amava essere definita “autrice autobiografica”. Lalla Romano muove da sé, dal proprio mondo domestico perché queste sono le dimensioni che ciascuno di noi può conoscere più a fondo. Ma il fine ultimo del suo lavoro letterario è la ricerca di verità generali, che riguardano tutti e nelle quali ciascuno può trovare qualcosa di sé.
Mi è molto congeniale questa concezione dell’arte che, indagando il particolare, e nutrendosene, va al di là di esso. Lo trascende. Per attingere all’universale.
Nella presentazione de Nei mari estremi, con quella brevità carica di significato che contraddistingue la sua scrittura, Lalla Romano riflette sul mestiere di scrivere: "Per me scrivere è stato sempre cogliere, dal tessuto fitto e complesso della vita qualche immagine, dal rumore del mondo qualche nota, e circondarle di silenzio". Questo passo mi ha folgorato. Mi ha aiutato a capire meglio il mio stesso lavoro. Mi ha reso più consapevole di ciò che faccio quando fotografo. Anch’io, in fondo, non faccio altro che isolare, dal tessuto complesso del mondo, alcuni particolari, per poi circondarli di spazi vuoti. Di silenzi.
Motivi dominanti di questa ricerca fotografica sono il tempo e la memoria. Il tempo che si deposita sulle pareti domestiche e dentro di noi; il tempo dello sguardo e della memoria; il tempo dell’oblio. Dimensioni immateriali dell’esperienza che si manifestano attraverso tracce materiali, tangibili, che la rappresentazione fotografica trasfigura, trasformandole in segni.
Le immagini di questo lavoro riproducono fotograficamente alcune porzioni della casa di Lalla Romano, rimasta intatta dopo la sua morte. Ma lo spazio, l’elemento nel quale si agisce e si vive, è pressoché escluso dalla rappresentazione. A enfatizzare l’assenza. E nello stesso tempo focalizzando tutta l’attenzione su alcune presenze (impronte, vecchie fotografie, cartoline, suppellettili domestiche, oggetti lignei fatti dal figlio o dal nipote ecc.). Ed è proprio la presenza di queste tracce a rendere più manifesta (e struggente) l’assenza.
Del resto, presenza e assenza si intrecciano indissolubilmente. E’ proprio questo il cuore della fotografia: l'attestazione di una realtà, ma come passato; l'affermazione di una presenza, ma come ciò che è stato. Il massimo di concretezza e di vicinanza con il massimo di impalpabilità e di lontananza, insomma. Cose che Lalla Romano ben conosceva, tanto da legare strettamente nella sua opera l'evocazione attraverso la scrittura con quella attraverso le immagini fotografiche, traendole entrambe dal rumore del mondo per circondarle di silenzio (Lettura di un’immagine, Romanzo di figure, Nuovo romanzo di Figure).
Ma "Paesaggi d’assenza" non vuole essere un canto funebre. Ho inteso soffermarmi non tanto sulla perdita, quanto sulla vitalità di ciò che Lalla Romano ha lasciato, in termini affettivi, culturali, morali.
Lavoro con tecniche e strumenti tradizionali. Fotografo con un apparecchio di grande formato, che consente una restituzione fine dei dettagli e favorisce uno stato d’animo riflessivo. Ma proprio la tensione a una riproduzione fotografica fedele di alcuni frammenti di realtà, isolati dal loro contesto, trasfigura la realtà stessa. La sottopone ad un processo di straniamento. Le porzioni di realtà fotograficamente riprodotte appaiono qualcosa di nuovo e quasi inaspettato. E proprio questa visione diversa e rinnovata di ciò che è familiare e conosciuto rappresenta, credo, uno dei caratteri peculiari (e più ricchi di potenzialità espressive) della fotografia.
Mi è molto congeniale questa concezione dell’arte che, indagando il particolare, e nutrendosene, va al di là di esso. Lo trascende. Per attingere all’universale.
Nella presentazione de Nei mari estremi, con quella brevità carica di significato che contraddistingue la sua scrittura, Lalla Romano riflette sul mestiere di scrivere: "Per me scrivere è stato sempre cogliere, dal tessuto fitto e complesso della vita qualche immagine, dal rumore del mondo qualche nota, e circondarle di silenzio". Questo passo mi ha folgorato. Mi ha aiutato a capire meglio il mio stesso lavoro. Mi ha reso più consapevole di ciò che faccio quando fotografo. Anch’io, in fondo, non faccio altro che isolare, dal tessuto complesso del mondo, alcuni particolari, per poi circondarli di spazi vuoti. Di silenzi.
Motivi dominanti di questa ricerca fotografica sono il tempo e la memoria. Il tempo che si deposita sulle pareti domestiche e dentro di noi; il tempo dello sguardo e della memoria; il tempo dell’oblio. Dimensioni immateriali dell’esperienza che si manifestano attraverso tracce materiali, tangibili, che la rappresentazione fotografica trasfigura, trasformandole in segni.
Le immagini di questo lavoro riproducono fotograficamente alcune porzioni della casa di Lalla Romano, rimasta intatta dopo la sua morte. Ma lo spazio, l’elemento nel quale si agisce e si vive, è pressoché escluso dalla rappresentazione. A enfatizzare l’assenza. E nello stesso tempo focalizzando tutta l’attenzione su alcune presenze (impronte, vecchie fotografie, cartoline, suppellettili domestiche, oggetti lignei fatti dal figlio o dal nipote ecc.). Ed è proprio la presenza di queste tracce a rendere più manifesta (e struggente) l’assenza.
Del resto, presenza e assenza si intrecciano indissolubilmente. E’ proprio questo il cuore della fotografia: l'attestazione di una realtà, ma come passato; l'affermazione di una presenza, ma come ciò che è stato. Il massimo di concretezza e di vicinanza con il massimo di impalpabilità e di lontananza, insomma. Cose che Lalla Romano ben conosceva, tanto da legare strettamente nella sua opera l'evocazione attraverso la scrittura con quella attraverso le immagini fotografiche, traendole entrambe dal rumore del mondo per circondarle di silenzio (Lettura di un’immagine, Romanzo di figure, Nuovo romanzo di Figure).
Ma "Paesaggi d’assenza" non vuole essere un canto funebre. Ho inteso soffermarmi non tanto sulla perdita, quanto sulla vitalità di ciò che Lalla Romano ha lasciato, in termini affettivi, culturali, morali.
Lavoro con tecniche e strumenti tradizionali. Fotografo con un apparecchio di grande formato, che consente una restituzione fine dei dettagli e favorisce uno stato d’animo riflessivo. Ma proprio la tensione a una riproduzione fotografica fedele di alcuni frammenti di realtà, isolati dal loro contesto, trasfigura la realtà stessa. La sottopone ad un processo di straniamento. Le porzioni di realtà fotograficamente riprodotte appaiono qualcosa di nuovo e quasi inaspettato. E proprio questa visione diversa e rinnovata di ciò che è familiare e conosciuto rappresenta, credo, uno dei caratteri peculiari (e più ricchi di potenzialità espressive) della fotografia.
Alessandro Vicario
Milano, novembre 2003