Frammenti per capire
Credo che si sbaglierebbe se si vedessero queste immagini fotografiche semplicemente come un omaggio affettuoso e grato all’opera di Lalla Romano, o come una documentazione dell’ambiente in cui essa ha trascorso l’ultima parte della vita; come una rappresentazione del laboratorio raccolto in cui hanno preso forma alcuni dei suoi libri più noti e amati. Si tratterebbe di un’impresa generosa, ma confinata nei limiti dell’illustrativo e dell’aneddotico. La posta in gioco è più alta, come appare se si considera nel suo insieme il progetto di ricerca visiva a cui Alessandro Vicario lavora da anni. Egli ha deciso di non essere contemporaneo e complice della dominante cultura della smemoratezza, che rimuove – o (ma è lo stesso) deforma strumentalmente – il passato al servizio di un presente da consumare anziché da vivere. Incurante dell’imperativo sociale che vieta quella forma di pietas che è l’interrogarsi su ciò e su chi è scomparso, egli ha intrapreso nel 1999 un tenace lavoro di raccolta delle tracce visive di alcune presenze che lo hanno segnato e che sono per lui termini ineludibili di riferimento e riconoscimento di sé. La prima di tali presenze è quella della nonna paterna, e dei propri anni trascorsi con lei, le cui tracce, visibili ancora per poco sulle pareti ormai spoglie di una casa prossima a cambiare proprietà, egli ha raccolto e tradotto in fotografie, cioè in tracce fotochimiche di quelle tracce umane (Frammenti domestici tra memoria e oblio, 1999-2001); e per far avvertire ancora più forte il legame fra le une e le altre, ha stampato le fotografie nelle stesse dimensioni delle superfici riprese, così che ad ogni frammento di casa, di vita, di memoria, corrisponda un frammento di superficie fotosensibile impressionata; e tutti questi frammenti, liberamente ricomposti su altre pareti, si presentino a chi li vede come invito a un analogo impegno di ricomposizione e riscatto di ciò che è passato, ma non veramente perduto finché si sappia rielaborarlo come parte di sé. Un’altra tappa di questa ricerca è il lavoro, tuttora in corso, su ciò che resta del muro di Berlino (Screpolature… dal muro di Berlino…, 2003): oggetto tanto carico di segni e depositi contraddittori, e tanto celebrato ufficialmente, quanto non elaborato davvero quale autentico tema di memoria storica – come dimostra il fatto che, celebrandolo, si vogliono dimenticare altri e non diroccati muri della vergogna lungo altre frontiere di un nuovo “impero d’occidente”, illuso come l’antico di tenere fuori i “barbari” che già lo abitano. Anche in questo caso, lo sguardo dell’autore respinge la retorica dominante e si tiene fermo all’oggetto, alle tracce che vi si stratificano e agli interrogativi che ne scaturiscono. La terza tappa, per ora, di questo percorso coerente che lega la realtà personale dell’autore a quella di tutti – com’è giusto in un mondo dove nessuno può “salvarsi” da solo –, è la ricerca sull’ultima casa di Lalla Romano, sul “paesaggio” in cui la fotografia coglie l’assenza della scrittrice nella presenza delle sue tracce. In questo lavoro il rigore, e a volte l’asprezza, dei primi due si attenua, e subentra uno sguardo più dolce e contemplativo, che, di fronte non più a vuoti, screpolature, deterioramento e abbandono, bensì ad oggetti domestici, dipinti, libri tuttora vivi e disponibili, coglie i segni del tempo non solo come una fine ma anche come una speranza di continuità. Alla luce dell’intero percorso qui tratteggiato, allora, la ricerca sui paesaggi d’assenza e sulle tracce di Lalla Romano appare aliena da ogni interesse aneddotico, e ben inserita invece in quella ricca vicenda di pratica artistica della fotografia e di riflessione teorica su di essa che si sviluppa con grande vitalità negli ultimi decenni. In essa è centrale l’idea che la fotografia, per usare le parole di Susan Sontag, “non è soltanto un’immagine […]; è anche un’impronta, una cosa riprodotta direttamente dal reale […]. Mentre un quadro, anche se rispetta i criteri fotografici della rassomiglianza, non fa mai nulla di più che enunciare un’interpretazione, una fotografia non fa mai niente di meno che registrare un’emanazione (onde luminose riflesse da oggetti), un’orma materiale del suo soggetto, come un quadro non è mai in grado di fare” (Sulla fotografia, tr. it., Torino, Einaudi, 1978, p. 132). E Roland Barthes scrive in una pagina celebre: “Chiamo ‘referente fotografico’ non già la cosa facoltativamente reale a cui rimanda un’immagine o un segno, bensì la cosa necessariamente reale che è stata posta dinanzi all’obiettivo, senza cui non vi sarebbe fotografia alcuna. […] Il nome del noema [dell’essenza; ndr] della Fotografia sarà quindi ‘È stato’ […]: ciò che io vedo si è trovato là, in quel luogo […], e tuttavia è stato immediatamente separato; è stato sicuramente, inconfutabilmente presente, e tuttavia è già differito. […] La foto è letteralmente un’emanazione del referente. Da un corpo reale, che era là, sono partiti dei raggi che raggiungono me, che sono qui; […] la foto dell’essere scomparso viene a toccarmi come i raggi differiti di una stella. (La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it., Torino, Einaudi, 1980, p. 77-78, 81-82). Osservazioni che hanno le loro radici nella semiotica filosofica di Charles S. Peirce, secondo cui “le fotografie […] sono molto istruttive, perché noi sappiamo che esse sono per certi aspetti esattamente uguali agli oggetti che rappresentano. Ma questa rassomiglianza è dovuta al fatto che […] sono state prodotte in circostanze tali che esse erano fisicamente costrette a corrispondere punto per punto al dato di natura”, in quanto “effetto delle radiazioni provenienti dall’oggetto” (Collected Papers, 2.281 [1895 ca.], 2.265 [1903]). Questo spessore teorico sta, nascosto e insieme avvertibile, nei frammenti fotografici che Alessandro Vicario ci offre di oggetti in cui, altrettanto nascosto e avvertibile, sta lo spessore della scrittura e della vita di Lalla Romano. Ma questa fotografia non rappresenta quella scrittura e quella vita, non le illustra, non le descrive: presenta le loro tracce nel proprio essere traccia, oggetto che si affianca agli oggetti; e attraverso questa chiusa e muta presenza, rispetto a cui l’autore si fa da parte, ci suggerisce quanto vi sia ancora per noi da scoprire e capire in ciò che crediamo di vedere.
Roberto Signorini
Roberto Signorini