Il tempo della camera

  Sono qui proposte — dopo l’immagine del vetro martellato di una porta, che introduce alla dimensione meditativa del lavoro — tre sequenze di immagini fotografiche: un polittico, un dittico e un trittico. Come il titolo indica, esse vertono sul tempo e su una camera, entità fra loro con­nesse da una relazione di appartenenza (della). In realtà non di una ma di due camere si tratta: in primo luogo di una stanza della casa — oggi completamente trasformata — nella quale Alessandro Vicario ha trascorso con una persona cara periodi che contano molto nella sua esperienza e memoria di vita; in secondo luogo dell'apparecchio fotografico, che al­trettanto peso ha in questa sua esperienza e memoria, e un così grande spazio occupa nel suo presente. Le due "camere", dunque, sono legate fra loro non solo sul piano etimologico ma, per l'au­tore, anche su quello affettivo e teorico: entrambe sono vere e proprie macchine per ricordare, racchiudenti l'è stato che egli, in contrasto con la cultura dominante, non vuole affatto ri­muovere bensì conservare. Entrambe le camere, seppure immerse nel tempo che tutto di­strugge, proprio di questo tempo si appropriano, attenuandone l'ineluttabile azione distrut­trice nella durata utopica della forma artistica.   Ma in quale modo la forma di queste sequenze fotografiche "salva" il tempo? In due modi, che corrispondono alla duplice natura della camera stessa. Da un lato le immagini, in quanto riproduzioni di cose, fermano — trasportano dal transitorio al permanente — la luce che nella stanza entra dall'esterno o si produce all'interno, rivelando volumi, superfici e trame di oggetti carichi di memoria; dall'altro le immagini, in quanto insiemi di macchie più o meno scure, fermano (ed esibiscono) il processo con cui si sono formate all'interno della fotocamera per l'azione della luce che, penetrandovi, ha innescato la memoria fisico-chimica della superficie impressionata. C'è poi un altro aspetto della forma, più esterno ma non meno significante, che è la strut­tura sequenziale delle immagini, raggruppate in polittico, dittico, trittico. Anch'essa ferma ed esibisce il tempo: quello della stanza raffigurata, quello della fotocamera raffigurante e quello del fruitore che, osservando, si raffigura e considera entrambe nel pro­prio tempo di lettura, più o meno lento e riposato oppure veloce e affrettato: una lettura a cui non può essere estraneo — almeno come puro e inconsapevole sedimento culturale — il ricordo sia delle antiche pale d'altare a pannelli sia dei tabelloni a riquadri dei cantastorie sia infine delle sequenze fotografiche della Narrative Art.   Il "tempo della camera" dunque, in tutti i suoi significati, rimanda alle dimensioni fonda­mentali del sacro e della narrazione, così di frequente intrecciate nella storia della nostra cultura, qui rivissute dall'autore come esperienza laica ma di forte intensità affettiva nel suo rapporto con una persona, con un luogo, con una tecnica artistica. Tutto ciò è contenuto nello spessore di immagini apparentemente banali e già viste: una tenda su cui le fessure tra le stecche delle persiane proiettano strisce di luce ondulate che, col movimento apparente del sole, cambiano posizione e lunghezza da un fotogramma all'al­tro; due testiere di letto e due abat-jour accese, che potrebbero sembrare appartenenti a una stessa immagine replicata specularmente se un tempo di osservazione prolungato non le fa­cesse scoprire come oggetti simili ma diversi; tre porzioni di pareti attraversate da crepe, segni evidenti del tempo che minaccia la casa e i ricordi in essa racchiusi. Ma la banalità degli oggetti quotidiani, proprio perché fatta soggetto di una narrazione e posta ad una distanza che è la forma secolarizzata del sacro, è riscattata da un processo di straniamento e di riscoperta. Così anche chi osserva queste immagini in questa stanza di esposizione vive l'esperienza del tempo della camera.     

Roberto Signorini
Milano, 2000
Cerca