Ricomposizioni stenopeiche 

Come è nata l’idea di questa ricerca, all’apparenza così distante dall’attualità? «Il lavoro mi fu commissionato l’anno scorso dal Comune di Losone – in Canton Ticino – per una mostra collettiva sul tema della peste. Certo, l’epidemia di peste che colpì il Nord Italia e il Ticino nel Cinquecento è un tema lontano dall’attualità. Molto lontano, e non solo all’apparenza. È però legato – storicamente – proprio allo spazio espositivo che ha ospitato per primo questa mostra. Si tratta del Bluvanoni Spazio per l’Arte Contemporanea, che ha sede nella Chiesa di San Rocco, a Losone. San Rocco è il santo protettore degli appestati. Un lavoro site specific, dunque, in origine. Il soggetto sono certi ruderi di case, poco distanti dalla Chiesa di San Rocco, che probabilmente furono adoperate per ricoverare gli appestati losonesi, separandoli dai sani, durante l’epidemia dal 1584-85. C’era anche uno spunto letterario. Una fonte storica, per l’esattezza: la trascrizione di un breve manoscritto del 1912 nel quale uno storico locale – Siro Borrani – menziona le costruzioni presso Novella, nel bosco di Arcegno (questo il nome esatto della località). Anche il titolo del lavoro è una citazione tratta da questo documento, inserito in esergo in questo catalogo». Che cosa ti ha affascinato di questo tuo lavoro? «Il luogo delle riprese, innanzitutto. Un luogo evocativo e carico di memoria. I ruderi, abbastanza vicini tra loro, sono situati in un bosco fitto e ombroso. A incantarmi furono soprattutto i rumori del bosco: i fruscii dell’erba mossa dal vento, lo stormire delle fronde, il canto degli uccelli. Affascinante è stato anche il processo di ideazione e di produzione del progetto. Le idee, che mi hanno portato a sperimentare una forma espressiva per me nuova, si sono generate in maniera intuitiva. Mi ha appagato l’immediatezza con la quale sono arrivato al risultato finale». Puoi descrivere esattamente il procedimento tecnico del tuo lavoro? «Fin dall’inizio avevo ipotizzato di eseguire le riprese col foro stenopeico (anziché con l’obiettivo), registrando l’immagine non su pellicola o su carta fotografica, ma mediante un sensore digitale. Desideravo, in questa maniera, unire i due estremi tecnologici della fotografia: il foro stenopeico, appunto (che è il sistema di formazione dell’immagine più arcaico) e il sensore digitale (che è il dispositivo di registrazione dell’immagine più moderno e attuale)». Perché la scelta del foro stenopeico? Quali soddisfazioni ti ha dato? E in che modo questa scelta ha contribuito alla realizzazione del tuo progetto? «Intuivo in questa procedura una particolare coerenza rispetto al tema assegnatomi (e soprattutto rispetto al modo nel quale desideravo trattarlo). Così come il foro stenopeico e il sensore digitale coesistono (e possono essere utilizzati in combinazione) nella attuale tecnologia fotografica, allo stesso modo – nel mondo, e nella vita di tutti noi – coesistono passato e presente. Passato e presente non sono dimensioni distinte, ma dimensioni che dipendono l’una dall’altra. Il passato è parte del presente: il passato è il modello, elaborato nel presente, di cose e vicende trascorse. Ricostruite attraverso i segni, le tracce e gli indizi che ci sono pervenuti; e interpretate mediante le conoscenze e i mezzi scientifici e tecnologici di cui oggi disponiamo. La fotografia stenopeica manca della nitidezza che caratterizza le normali riprese fotografiche. A differenza dell’immagine formata da un obiettivo (con cui si può mettere a fuoco o sfocare), l’immagine prodotta dal foro stenopeico è uniformemente poco dettagliata. Il foro non permette né di mettere a fuoco né di sfocare. La profondità di campo è infinita. Il foro produce immagini vaghe, indistinte. È come se le cose, anziché essere analiticamente descritte, fossero solamente accennate. Ne deriva una rappresentazione che pare quasi trasognata. Da queste caratteristiche peculiari scaturisce il fascino di questa particolare forma di fotografia». È la prima volta che usi la fotografia stenopeica? «Questo è il primo lavoro. È un piccolo lavoro. Ma mi ha dato soddisfazione e mi incoraggia a continuare la ricerca intrapresa (al di là del tema specifico, ovviamente). In realtà, però, conosco la fotografia stenopeica fin da quando ero ragazzo. Ricordo ancora le mie prime esperienze stenopeiche. Erano gli anni della scuola dell’obbligo. Come sai, ho cominciato a praticare la fotografia fin da ragazzo, guidato da mio padre, fotografo. Con il suo aiuto avevo costruito un apparecchio stenopeico con una scatola da scarpe (il foro l’avevo fatto semplicemente bucando con un ago un pezzo di carta stagnola – come fanno tutti) e d’estate mi divertivo a fotografare gli amici e semplici scorci del paese nel quale trascorrevo le lunghe vacanze estive (nelle Marche). Chissà dove sono finite quelle antiche immagini. Prima o poi le cercherò. Mi piacerebbe rivederle». Come hai proceduto concretamente nella realizzazione del progetto? «Nella scelta della luce e delle inquadrature, al solito, mi sono affidato all’istinto, all’intuizione. Ho lasciato che fosse il luogo (la sua atmosfera, i suoi colori, la sua luce) a suggerirmi che cosa fare. Ho trascorso nel bosco di Novella un pomeriggio, fino all’imbrunire; e poi vi sono tornato il giorno appresso, di primissimo mattino, e vi sono rimasto fino all’ora di pranzo. Ho preso una ventina di fotografie (varianti a parte), tra le quali avrei poi scelte quelle per la mostra. Ma ancora non sapevo in che modo avrei presentato il lavoro». Come sei arrivato al lavoro definitivo? «Ho scelto sei immagini e le ho stampate su piastrelle di ceramica (un supporto tra i più durevoli, ma nello stesso tempo anche fragile). Le ho frantumate; non ad arte, ma affidandomi al caso (o quasi), prendendole a martellate. Ai visitatori della prima mostra proposi i frantumi di queste piastrelle, invitandoli a trattarli come uno storico o un archeologo tratterebbe delle fonti giunte a lui rovinate e frammentate. Li invitavo, cioè, a ricomporle, facendo così ricomparire le immagini. Infine, terminata quella mostra collettiva, procedetti alle riproduzioni delle piastrelle ricomposte e le stampai nelle stesse dimensioni. Queste riproduzioni (fotografie di fotografie) sono per me l’opera finale, che ora propongo al pubblico». Perché hai stampato le foto su piastrelle di ceramica? «Non so esattamente come e perché (e non ricordo neppure quando) ho concepito l’idea di trasformare le immagini (testimonianza personale, parziale, arbitraria, delle tracce del passato) in qualcosa che avesse una maggiore consistenza fisica rispetto alle consuete stampe fotografiche. Volevo che le immagini stesse fossero (o apparissero) dei reperti fisici. Desideravo enfatizzare – rendendola manifesta (e addirittura tangibile) – l’idea che non solo i resti materiali del passato, ma anche le loro testimonianze (le fonti secondarie) sono fragili, alterabili: soggette insomma alle vicende umane, alle manomissioni, e al caso». Ho voluto che fosse Alessandro Vicario a spiegare la sua ricerca e ho voluto che invece di darmi delle indicazioni di poetica, mi dicesse concretamente, operativamente come è arrivato a questo lavoro, nel progetto, nel procedimento e nel risultato finale, che si può vedere in questo catalogo e in mostra. Dico sinceramente che le poche, essenziali immagini che qui si propongono mi intrigano davvero: mi affascinano e mi incuriosiscono nello stesso tempo. Anche se sono molto diverse dagli altri lavori di Alessandro, che negli anni ho seguito nella loro genesi e realizzazione, spesso accompagnandoli fino alla messa in pagina in catalogo o sulle pareti di gallerie e vari spazi espositivi. Queste immagini sono diverse, più lontane dalla mia esperienza fotografica e critica: forse proprio per questo mi attirano. Innanzitutto per l’esperienza della fotografia stenopeica, che – all’apparenza – si presenta come elementare, quasi banale. Ricordo, la diffusione che ne fece Ando Gilardi, soprattutto a livello didattico, a partire dagli anni Ottanta. Ma Vicario le fa fare un passo avanti, come lui stesso ha rivelato: cioè utilizza una tecnica di ripresa elementare, semplice, ma abbinandola a un sensore digitale. Quasi due opposti che Alessandro riesce a coniugare, a congiungere, con risultati, appunto, intriganti. E sorprendenti. Qual è il rapporto fra queste immagini e il tema di partenza, la peste? Nessuno di noi ha esperienza di contatto con un malato di peste. Ma a me vengono in mente i lebbrosi, i tanti lebbrosi che ho visto e aiutato a curare per alcuni mesi in un piccolo ospedale in piena foresta, in Camerun, molti anni fa. Ma il ricordo è ancora nitido, proprio perché li ho anche fotografati. Non credo che Alessandro abbia avuto questa esperienza, che ti lascia un segno per la vita. Ecco, queste sue immagini in qualche modo ricordano le ferite inflitte dalla malattia a quei corpi. “Strappi” che non si rimarginano; cicatrici di “lesioni” che restano per sempre, anche quando si sopravvive. Suggestioni. Ciascuno poi leggerà in queste immagini quello che la sua esperienza lo porterà a leggere. Vi sono “strappi” e fratture, “lesioni” appunto, di ordine molto diverso: fisico e psichico. Il discorso si può allargare, dall’esperienza della peste nel Cinquecento, a temi e traumi e fratture e lesioni più vicine alla sensibilità odierna. Sollecitati da queste immagini, così profondamente immerse nel passato e nel presente. Immagini di memoria, ma che guardano, e ci fanno guardare all’oggi. La memoria infatti è uno dei temi fondanti della ricerca fotografica di Alessandro Vicario, fin dagli inizi: e basta sfogliare la sua bibliografia per verificarlo. Una memoria tuttavia che non rimane rinchiusa nel passato, ma che guarda al futuro. «Memoria è libertà?», si interrogava Lalla Romano nel suo ultimo libro Ritorno a Ponte Stura, pubblicato nel 2000, pochi mesi prima di morire, quasi a testamento della sua poetica. E rispondeva: «Deve esserlo. La memoria è sacra, ma non è un carcere. Amare la memoria è anche amare il futuro». E di Lalla Romano Alessandro Vicario (che ha letto i suoi libri e ha lavorato nella sua casa a Milano e nei suoi luoghi natali in Valle Stura) ha introiettato un’altra caratteristica fondamentale: quel «circondare di silenzio », di spazi bianchi, i suoi scritti, la sua scrittura. Spazi di pausa, di riflessione non solo per chi scrive, ma soprattutto per chi legge. E che lotta ha ingaggiato Alessandro per lasciare una pagina bianca accanto a ogni immagine: così vivono, non solo in se stesse, ma in chi le guarda e in quella pagina bianca “leggerà” o “scriverà” la sua “lettura dell’immagine”. E della sua vita, e della sua esperienza. Vite ed esperienze sempre più frantumate, quelle dell’uomo contemporaneo: le “leggiamo” nell’immagine a doppia pagina che apre questo catalogo. Frantumazione definitiva? Dispersione senza ritorno? Nella prima edizione di questa mostra Alessandro Vicario, ha invitato il visitatore a cercare di ricomporre le schegge delle sue fotografie su ceramica. Quindi, quello che ci vuole trasmettere, alla fine, è un messaggio positivo, di speranza. La ricomposizione è possibile: si può uscire dal cerchio della “peste”. La dispersione, di senso e di vita, non è definitiva nè ineluttabile. Certo, ci vuole pazienza. Ma anche coraggio. Una fotografia, quella di Alessandro Vicario, che parte dal passato, ma che si “spende” per il presente, con uno sguardo rivolto al futuro. Una fotografia fondata sulla memoria, ma aperta alla speranza. Nella sua caratterizzazione informale e quasi astratta, appare impegnata e ben radicata nella vita. Come giustamente scrive Diego Mormorio nelle pagine seguenti a commento delle immagini di Vicario, dalla «memoria della peste nei boschi di Arcegno» emerge una fotografia capace di utilizzare un metro «che misura le cose in profondità». 

Antonio Ria
Milano, mercoledì 16 Dicembre 2009.
Cerca