Lo spettacolo del naufragio
Per difendersi o per mostrare il proprio potere, per orgoglio o per timore, da sempre le civiltà hanno innalzato mura capaci di caratterizzarle. Erano costruzioni così ardite che spesso non se ne attribuiva la paternità agli uomini: le splendide mura di Micene, volute dal re Perseo, si tramanda siano state erette dai Ciclopi perché nessun umano avrebbe potuto smuovere pietre così grandi, quelle che il re di Troia Laomedonte volle invincibili per la sua città furono, invece, opera di due importanti divinità come Poseidone ed Apollo. In altri casi si riconosceva alla laboriosità degli uomini la creazione di opere di inquietante bellezza: la cinta muraria che difendeva la strada fra Atene e il porto del Pireo era il segno dell’egemonia delle classi produttive rappresentate dal democratico Pericle, le mura che delimitavano la penisola su cui si affacciava l’antica Bisanzio impedivano la via terrestre a quei nemici che la potente flotta teneva lontani dalle coste, il grandioso percorso di quasi novemila chilometri della Grande Muraglia assicurava l’impero cinese dalle incursioni delle popolazioni mongole. Eppure, nessuna di queste imponenti opere poté resistere al tempo se non come rovine di un’antica grandezza: le mura di Gerico si sbriciolarono al suono dei corni degli avversari, quelle di Troia furono aggirate con l’astuzia e l’inganno, quelle cinesi non poterono impedire che i nemici ne attaccassero vittoriosamente più volte gli unici punti deboli costituiti dalle porte. La nascita del Muro di Berlino è la prova che, nonostante quanto si dice, l’uomo non impara quasi mai dalla storia. Quando il 13 agosto 1961 iniziò la costruzione di un confine che avrebbe fisicamente diviso la città per sancire una contrapposizione ideale fra due visioni del mondo, il valore simbolico di quell’operazione apparve subito in tutta la sua dimensione epica. Tuttavia, quei solidi blocchi di cemento armato accostati gli uni agli altri così da creare una barriera avevano un elemento di debolezza che era sfuggito ai più: erano terribilmente brutti e come tali potevano essere sconfitti dalla bellezza e dall’arte prima ancora che dalla politica. Infatti, pur essendo apparentemente inattaccabile, teatro di tragiche esecuzioni da parte dei vopos e di rocambolesche fughe, negli ultimi dei suoi ventotto anni il Muro ha vissuto impreviste provocazioni come quella del ragazzo che nel 1986 vi camminò sopra indisturbato per cinquecento metri o dei duecento punk che due anni dopo, per sfuggire alle cariche della polizia, lo scavalcarono da Ovest ad Est. Anche dal mondo dell’arte al “vecchio” muro sono arrivate le più diverse contestazioni: il concerto del violoncellista Mstislav Rostropovic, la manifestazione del 4 novembre 1989 ad Alexanderplatz organizzata dall’Unione degli artisti, il concerto del 1990 in cui Roger Waters evoca il mitico “The Wall” dei Pink Floyd. E la fotografia? Indimenticabili, fra le altre, le immagini di Henri Cartier-Bresson, come quella che ritrae tre adulti in piedi su una centralina telefonica per tentare di scorgere parenti ed amici che abitano oltre il muro, il reportage in bianconero di Richard Avedon sul Capodanno 1989 alla Porta di Brandeburgo, la minuziosa documentazione del muro, drammaticamente scarna, di Antonia Mulas. Quando Alessandro Vicario ha deciso di indagare sul Muro ha preferito seguire una sua personalissima strada incentrata sulla materia e sulla bellezza. Da sempre interessato ai temi del tempo e della memoria, su cui ha a lungo lavorato, ha saputo guardare al Muro con quella visione limpida che hanno inevitabilmente le nuove generazioni quando si devono confrontare con una storia che per loro non ha la passione bruciante del vissuto. Al contrario di quanto altri hanno fatto, Vicario ha scelto di non allargare lo sguardo inscrivendo il Muro nel contesto in cui ora è conservato e ricordato, ma di avvicinarsi il più possibile alla superficie di cemento armato considerandola una pelle da osservare da vicino alla ricerca di segni, di allusioni, di simboli. Lo ha fatto con una calma e un’attenzione antica, misurando i gesti di chi sa di scegliere una macchina, come il banco ottico che richiede lentezza e in cambio regala la minuzia iperrealistica del dettaglio. Il risultato è stato sorprendente perché le tante lastre fotografiche sono diventate altrettante tappe di un percorso che si snoda nella meraviglia fino a rivelare un mondo quasi sconosciuto anche se posto sotto gli occhi di tutti. Ma fra vedere e osservare c’è sempre una grande differenza, che sa cogliere solo chi è dotato di acume e non si lascia sfuggire anche il più piccolo particolare. Così, in un chiodo conficcato nel muro su cui cola la ruggine come fosse uno schizzo di vernice si possono scorgere i confini di una metafora mentre il colore che lentamente si sfoglia in mille frammenti azzurri lascia tracce in cui possiamo forse riconoscere un profilo, uno sguardo, un volto di donna. Per Alessandro Vicario il senso del tempo vive in queste screpolature che talvolta alludono all’antichità (sopravvivono due gambe e un braccio di un corpo che nei colori e nelle forme sembra un affresco d’epoca romana) e in altri casi aggrediscono le lettere delle scritte fino a renderle irriconoscibili e quindi misteriose. Il cemento non è quella materia inerte che abbiamo immaginato: sulla sua superficie compaiono le porosità create dalla lunga esposizione alle intemperie, le stesure omogenee di colore che generano formelle monocromatiche, gli interventi di recupero grazie ai quali tutto torna liscio, pulito, grigio e anonimo come quando era apparso agli autori dei graffiti. Poi, all’improvviso, la sequenza si interrompe bruscamente e dalla materia del Muro emergono i tondini d’acciaio dell’armatura, l’anima interna che allude metaforicamente alle sbarre di una prigione. La metafora si fa più vivace quando il fotografo si sofferma sulle parti del Muro dove turisti e cacciatori di souvenir hanno scavato così in profondità da creare fessure oltre le quali si scorge l’azzurro del cielo, il verde di un prato. Come per il labirinto, anche qui la realtà non la si può vedere se non si riesce ad allontanarsene ma solo avvicinandola se ne coglie lo spirito e allora si può scorgere in quel ferro che attraversa orizzontalmente un buco l’urlo soffocato dell’uomo alla ricerca di se stesso.
Roberto Mutti