La morte scritta sulle pietre della fotografia
Per quanto possa apparire a prima vista incredibile, le grandi cose stanno dentro le piccole. O meglio, quelle che spesso vengono considerate “piccole cose” appaiono tali perché misurate con un metro inadeguato. Prendiamo la peste e le pulci. Sono due realtà a prima vista immensamente lontane. La prima parola – peste – fa ancora terrore: così quando comparve il virus dell’Aids, molti lo chiamarono «la peste del ventunesimo secolo». È qualcosa di immensamente spaventevole. “Pulce”, invece, è una parola che indica un piccolissimo animale ed evoca un certo fastidio, o, per la precisione, un po’ di prurito. Insomma, le pulci non fanno molta paura. Solo ogni tanto si presentano in qualche scuola. Ma vengono subitamente scacciate. In realtà, per lunghi secoli, le pulci e la peste hanno vissuto insieme. O meglio, insieme hanno prodotto la morte di milioni di persone. L’idea che le piccole cose contengono le grandi, prima di definirsi chiaramente attraverso lo studio delle dottrine orientali, cominciò in me a farsi strada nel 1988, proprio attraverso le pulci e la peste: più precisamente con un piccolo libro di Giovanni Berlinguer che toccava questo argomento, Le mie pulci. Sicché ora, ogni volta che sento parlare di pulci o di peste, mi viene da sorridere, così come si fa quasi sempre davanti a un bel ricordo, che in questo caso, naturalmente, non riguarda soltanto il libro appena detto, ma soprattutto l’insegnamento di alcuni maestri, che mi hanno portato a convincermi che per ogni cosa bisogna usare un metro diverso: un metro che si confà alla cosa. Il metro della comprensione profonda della realtà fenomenica è, infatti, un elastico. Il metro della scienza che guarisce dalla peste o che debella le pulci è diverso da quello che fa capire che tutte le cose vivono una dentro l’altra, indipendentemente dalla loro misura fisica. La fotografia può riguardare tutt’e due questi metri. Può essere uno strumento della scienza, così come può essere un tratto del metro che misura le cose in profondità, come sono queste immagini di Alessandro Vicario sulla memoria della peste che attraversò l’Europa nel Cinquecento. Esse nascono da un piccolo gruppo di case fra i boschi di Arcegno, in una località chiamata Novella, dove sembra che i “sani” abbiano rinchiuso i malati. Nelle fotografie di Vicario la peste ha smesso di essere tout court la peste ed è diventata tante cose che apparentemente non hanno niente in comune con essa. E, proprio per questo, esse sono la prova che ogni cosa vive dentro altre cose. Che l’immagine della fotografia non è immediatamente la cosa rappresentata. Addirittura nelle fotografie di Vicario la memoria della peste nei boschi di Arcegno diventa ceramica – frantumi di ceramiche intrise di immagini sottoposte alla violenza del tempo. Fotoceramiche, come quelle che popolano le lapidi dei nostri cimiteri e sulle quali è possibile leggere un’antropologia di sguardi. Per vie traverse, la peste torna a essere la peste. La morte scritta sulle pietre, sulle carte della storia, nel fondo dei cuori.
Diego Mormorio, 2010