I colori della natura

Decisivo fu l’incontro con un sasso grigio e levigato, venato da una sottile linea bianca che ne sottolineava la forma con discrezione. Attorno al sasso scorreva rapida l’acqua, simile a ghiaccio appena disciolto, di un fiume di montagna. Con sfumature che dal bianco passavano al grigio, al blu, al celeste cinerino l’acqua circondava il masso come un’aureola che, con la sua fluidità, ne sottolineava la solidità ruvida e petrosa. Alessandro Vicario non si fa distrarre dal bel paesaggio della Valle Onsernone, si avvicina al “suo” sasso e scatta un’immagine precisa come un prelievo di realtà, ma in cui – come scrive Antonio Ria – emerge «poeticamente l’‘inarrestabile trasformazione’ della natura, anche in quella che noi erroneamente chiamiamo ‘natura morta’, e ci presenta l’Immobilità apparente della pietra» (1). Colpito dalla bellezza di molte pietre e ciottoli che occupano l’alveo del fiume Isorno, Vicario si porta a casa anche un sasso, attratto dal suo colore tra l’argenteo, il rosato e il ruggine. Dopo pochi giorni però, l’autore nota con disappunto che il colore della pietra, privato della presenza dell’acqua, si è incupito, si è addirittura coperto di uno strato opaco di grigio. Scopre, così, che non solo l’immobilità della pietra è apparente, perché viene erosa e modellata dallo scorrere senza sosta dell’acqua, ma che lo sono anche i colori delle cose. Certo egli non è tanto ingenuo da ignorare che i colori variano col modificarsi della luce e che non sono un elemento stabile degli oggetti. Ciò non di meno avverte una mancanza: ricorda l’incanto dei rumori del bosco, dell’erba mossa dal vento, ma soprattutto il piacere quasi fisico dei colori che illuminano i fiori e i massi, che s’incupiscono tra i boschi e infiammano il cielo. Tali colori si sono depositati nella sua memoria come qualcosa che non può essere dimenticato. Allora decide di fotografarli, di farli rivivere grazie alla fotografia. A fuoco – e dunque al centro della sua attenzione – questa volta non ci saranno più le cose, ma proprio i colori. Colori che si offrono al suo sguardo con un’infinita profusione di sfumature cromatiche, di combinazioni sempre diverse. Che lo impegnano in una ricerca inesausta e quasi senza fine. Curiosamente, è come se il percorso artistico di Vicario volesse seguire quello compiuto da Wolfgang Goethe. Il grande scrittore tedesco, infatti, non solo amava passeggiare tra i boschi della sua Turingia: si fermava spesso, vuoi per disegnare un masso dalla forma poderosa o il ramo di un albero, vuoi per raccogliere campioni botanici e pietre che poi catalogava con cura. Da tale esperienza nella natura nacque l’opera che lo impegnò almeno quanto il Faust e che per molto tempo egli ritenne la sua opera più significativa: la Teoria dei colori (Zur Farbenlehre, 1808). Nel capitolo Azione sensibile e morale del colore, egli scrive «Il colore occupa un posto assai elevato nella serie delle manifestazioni naturali originarie, in quanto riempie di una molteplicità ben definita il cerchio semplice che gli è assegnato. Non ci stupiremo quindi di apprendere che esso esercita un’azione, in particolare sul senso della vista, a cui esso in maniera evidente appartiene e, per suo tramite, sull’animo nelle sue manifestazioni elementari, senza riferimento alla costituzione o alla forma del materiale, sulla cui superficie lo vediamo….» (2). Egli nota cioè che l’incanto del colore e le emozioni che esso ci procura non si fondano sugli oggetti colorati, bensì sulla parvenza, sul puro effetto cromatico che si libra, aereo, sopra le cose. È il colore a procurare emozioni, a renderci tristi quando si spegne verso il grigio, a rallegrarci quando ritorna acceso e luminoso. Quasi volesse porsi in sintonia con queste riflessioni di Goethe, Alessandro Vicario – nella sua ricerca Concetti cromatici – isola i colori, non ci permette di vedere con chiarezza le forme naturali che li hanno generati. Eppure a volte ce le fa immaginare, ce le fa intravedere qua e là, per poi celarle dietro immagini monocrome e vibranti come un quadro di Phil Sims, oppure cangianti e luminose come un’opera di David Simpson, o cupe e intrise d’oscurità. È come se le sue opere volutamente oscillassero verso la materia stessa della natura e a volte verso l’astrazione, rimanendo tenacemente in una sorta di intervallo ambiguo, mobile e sospeso, aperto verso l’immaginario dello spettatore. Per quanto si presentino visivamente come campiture di colore, le sue immagini, però, si avvicinano più formalmente che sostanzialmente alla tradizione della fotografia astratta nella quale è il fotografico stesso a divenire l’oggetto della fotografia. La “vera” fotografia astratta non è, nella maggior parte dei casi, un’astrazione del reale (come nel caso dei Concetti cromatici di Vicario), ma nasce da operazioni autoriflessive, autoreferenziali. È una fotografia che non rappresenta nulla di reale, ma presenta qualcosa; non riproduce la realtà, ma produce creando con la luce e sperimentando i materiali stessi del fare fotografico. Nel caso dell’opera di Vicario è invece evidente che l’astrazione non nasce da una riflessione “narcisistica”, autoriferita, sulla fotografia, ma tutto all’opposto da un incantamento per i colori della natura. Se dobbiamo trovare dei “maestri” che l’hanno inspirato in questa ricerca bisogna dunque fare riferimento più ai pittori che ai fotografi astratti. È infatti lui stesso a dirci che questa sua ricerca è stata anche ispirata da una visita alla Villa Menafoglio Litta Panza, là dove sono esposte le splendide opere astratte della collezione Panza di Biumo. Di fronte ai grandi quadri di David Simpson, di Phil Sims, di Ruth Ann Fredenthal, di Ettore Spalletti, si è accorto di quanto un’opera di puro colore possa comunicare un senso di intensità, di infinito, e rievocare tutti i colori dell’universo. Lo stesso Giuseppe Panza di Biumo scrive sull’opera di Sims: “Si potrebbe fare un lungo discorso su ogni colore. Che cosa esprimono i suoi blu? Il mare, il cielo infinito, il colore di un pomeriggio d’estate o del crepuscolo all’inizio del tramonto? Il giallo è il colore del grano maturo, è una sensazione di opulenza vitale, oppure delicato come un fiore appena sbocciato che incomincia a vivere” (4). Se la pittura riesce così intensamente a rievocare i colori della natura, che cosa accadrebbe se tali colori, grazie alla fotografia, nascessero non per imitazione, ma come un’impronta diretta? – sembra essersi chiesto Vicario. Sospinto da questo interrogativo, l’autore fotografa il colore delle cose, dei fiori, dei sassi, dei campi, degli alberi, dei cieli, creando immagini monocromatiche e sfumate che non evocano più solo i cromatismi della natura, ma ne sono generate. Ne sono l’impronta luminosa, modificata e reinterpretata dal dispositivo fotografico stesso senza manipolazioni. Che la sua operazione artistica non voglia banalmente emulare fotograficamente le opere degli autori della collezione Panza da lui ammirati, e neppure trasformarsi in un accattivante viaggio nei colori della natura, lo dimostra la scelta di usare per le sue serie di immagini uno stesso formato, piccolo, e per di più rigorosamente quadrato. Con tale scelta egli ci indica con precisione che la sua ricerca vuole essere un inventario percettivo, una catalogazione che non si pone in competizione con la pittura. Nel suo lavoro non ci sono infatti mai fughe verso suggestioni simboliche, e neppure interventi “artistici” o interpretativi: esso si gioca tutto in rapporto alla condizione specifica della fotografia. Tra la fotografia “soggettiva” e quella “oggettiva” egli sceglie con decisione quest’ultima. Il suo padre spirituale potrebbe essere Karl Blossfeldt con la sua serie Urformen der Kunt (1890-1930), dove riprende una a una, ravvicinate e con la stessa illuminazione, quasi seimila piante evitando tutte le trappole dell’empatia. Come per questo autore storico, anche per Vicario la fotografia non ha il compito di interpretare, ma di mostrare. Tutta all’interno del fotografico è pure la sua scelta di apporre sotto ogni immagine un testo in cui indica il luogo e il tempo esatto in cui l’immagine è stata scattata. Egli sottolinea quel “è stato” di cui parlava Roland Barthes a proposito della fotografia. Un “è stato” che però – grazie al suo testo – perde ogni vaghezza anacronistica e testimonia il momento preciso e ormai trascorso in cui il fotografo era lì davanti a quel fiore a Berlino o a quella pianta di Arcegno. Tale informazione, che in apparenza fissa le immagini in un tempo univoco, in realtà funziona come un evidenziatore che fa emergere la paradossale condizione temporale insita in esse. Senza tale scritta che ci dice “questa è una fotografia”, noi, nelle sue opere, avremmo visto solo un insieme di accattivanti immagini evocative, aperte verso una sorta di infinito atemporale. Invece, proprio in virtù del loro deciso presentarsi come impronte, rinviano a un modello temporale sfumato e complesso, in cui coesistono l’adesso e l’“è stato”, l’attimo e l’eternità. Ed è proprio questa paradossale temporalità a due facce che evita alle sue opere un doppio rischio: quello di presentarsi come semplici documenti della realtà e quello di scivolare verso l’imitazione idealistica di una pittura protesa verso l’assoluto.   1) Un’Onsernone. Stefano Spinelli Topografie affettive, Alessandro Vicario, Immobilità apparente, a cura di Antonio Ria, ELR Edizioni Le Ricerche, Losone, 2008, p. 9. 2) Wolfgang Goethe, La teoria dei colori, a cura di Renato Troncon, Saggiatore, Milano, 1979; cap. Azione sensibile e morale del colore, pp. 185-92; cit. in: Manlio Brusatin, Storia dei colori, Einaudi, Torino, 1983, p. 88. 3) La collezione Panza. Villa Menafoglio Litta Panza – Varese, testo di Giuseppe Panza di Biumo, Skira, Ginevra - Milano, 2002, p. 22.

Gigliola Foschi, Milano 2010
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