Gli inizi ricominciano sempre
Quando Alessandro Vicario mi informò del suo progetto fotografico «A Demonte e in Valle Stura sulle tracce di Lalla Romano», devo confessare che all’inizio reagii con una certa perplessità. In tutte le sue opere – pensavo – Lalla è sempre partita da se stessa e ha inseguito il filo dei ricordi: come avrebbe potuto dunque uno sguardo esterno, quale quello di un fotografo, raccontare un universo di memorie ed emozioni senza tradirli? Certamente Alessandro Vicario, per questa ricerca, poteva farsi guidare e aiutare da tre libri dell’autrice: La penombra che abbiamo attraversato, Nuovo romanzo di figure e Ritorno a Ponte Stura; dove il primo si presenta come una rievocazione dell’infanzia passata nel paese nativo, mentre gli ultimi due raccolgono le immagini scattate dal padre di Lalla in Valle Stura, accostate a brevi testi – al contempo illuminanti e misteriosi, irrevocabili e sfuggenti – di cui è autrice la stessa Romano. Vicario dunque poteva non solo immaginare i luoghi e i personaggi descritti da Lalla ne La penombra che abbiamo attraversato, ma anche concretamente rivederli attraverso gli scatti del padre Roberto. E tuttavia: una simile abbondanza di figure sia reali che ideali sarebbe stata davvero di aiuto? Anni addietro mi era capitato fra le mani il libro di un autore contemporaneo che, con grande puntiglio e tenacia, aveva fotografato esattamente gli stessi luoghi dell’India dipinti a fine Settecento da Thomas e William Daniell. Il risultato mi era parso non solo piattamente calligrafico, ma addirittura deprimente: in tali immagini tutta l’aura e la magia dei dipinti pareva svanire, senza che le fotografie aggiungessero alcunché di sostanziale. Forse – ricordo di aver pensato allora – la «colpa» non era del fotografo (per altro un ottimo professionista), ma di tale impari confronto: ogni immagine del passato, proprio perché ci rimanda a un mondo ormai irraggiungibile, appare infatti evocativa e affascinante ai nostri occhi; mentre le fotografie del presente rischiano spesso di apparire inerti e prosaiche non appena poste a diretto confronto con quelle più antiche degli stessi luoghi. Una simile disparità non si sarebbe dunque ripresentata anche per il lavoro di Vicario a Demonte? Tanto più che le fotografie del padre di Lalla non erano quelle di un professionista impegnato a documentare la Valle Stura. «Dilettante Fotografo», come egli stesso amava definirsi, Roberto Romano ritraeva semplicemente ciò che amava: la moglie e le figlie, gli amici, ma anche la valle innevata, le adorate montagne dove andava a cacciare. Egli ci appare quindi come un testimone sensibile e profondo del suo tempo, proprio perché fotografava partendo solo dalle sue emozioni e dai sui legami affettivi, senza alcuna velleità artistica di costruire un affresco d’epoca. Come avrebbe potuto quindi Alessandro Vicario creare un lavoro capace di reggere l’improbo confronto con i magnifici testi di Lalla e con gli album fotografici del padre Roberto, entrambi realizzati a partire da precise esperienze vissute? Certo, Vicario ha letto con attenzione i libri di Lalla ed era già riuscito, in Paesaggi d’assenza. Sulle tracce di Lalla Romano, a ritrarre con immagini di grande intensità la casa dell’autrice dopo la sua scomparsa. Oltretutto il nuovo progetto nasceva da un diretto suggerimento di Antonio Ria, amato compagno di vita e di lavoro della scrittrice, e riscopritore proprio delle dimenticate fotografie di Roberto Romano. Ma il dubbio rimaneva: la ricerca di Vicario non rischiava forse di essere una sorta di prepotente intrusione dentro un mondo di memorie ed esperienze che non gli appartenevano? Ebbene, a quest’ultima mia perplessità ha finito per «rispondere» Lalla Romano stessa, che in Ritorno a Ponte Stura scrive: «Cos’è essenziale, nei ricordi e rievocazioni? Ciò che sarà colto, rivissuto da chi non c’era. / In fondo, è la sola immortalità che ci compete».[1] E poco oltre: «Care memorie, perché vere, cioè inventate. Storia, geografia: non prigioni, ma libertà. / Non c’è conclusione, perché il tempo continua. Procede e ritorna. Tale è il ritmo»[2]. In queste frasi cristalline emerge chiaramente la consapevolezza che tutti i suoi scritti, nati come viaggi alla scoperta di se stessa e dei propri vissuti, partono sì dal privato ma per aprirsi alle esperienze e all’immaginario dei lettori. Non solo: è come se l’autrice volesse incoraggiare qualcuno a ritornare sulle sue tracce affinché il cerchio del tempo e dei vissuti non si chiuda su se stesso, ma prosegua verso il futuro. «La memoria è sacra, ma non è un carcere. / Amare la memoria è anche amare il futuro»[3], aggiunge sempre in Ritorno a Ponte Stura. Quando dunque gli occhi mi sono caduti su queste pagine, i dubbi sul progetto di Vicario hanno cominciato a dissolversi: con tali parole – mi sono detta – è come se Lalla, che per scrivere La penombra che abbiamo attraversato era ritornata a Demonte sulle tracce della propria infanzia, avesse voluto invitare qualcun altro a raggiungere un’altra volta ancora quella valle per proseguire il suo cammino. Un invito che Antonio Ria, sensibile e fedele custode delle opere e della memoria di Lalla, aveva dunque saputo cogliere per poi affidarlo ad Alessandro Vicario. E a chi se non a lui? Già con Paesaggi d’assenza, infatti, Vicario aveva realizzato un lavoro che non si presentava solo come una documentazione della casa in cui la scrittrice aveva vissuto, ma che dava vita a una sorta di interazione mimetica con la sua scrittura, a un proseguimento della sua poetica trasfigurata in termini visivi. E infatti, osservando il risultato finale di quest’ultima ricerca, si ha l’impressione che Alessandro Vicario sia di nuovo riuscito a evitare una logica piattamente descrittiva, per ritrovare una volta ancora una sintonia profonda, tutt’altro che di superficie, con l’opera e i luoghi d’infanzia della grande scrittrice. Se in Romanzo di figure le parole di Lalla Romano accostate alle immagini del padre non illustrano la vicenda, bensì – come sostiene Francesco Porzio – «partecipano attivamente alla costruzione dell’opera»[4], così in questo nuovo ritorno in Valle Stura le immagini di Vicario non riproducono esattamente i luoghi fotografati da Roberto Romano e neppure si limitano a descrivere in modo pedante le parole di La penombra che abbiamo attraversato: si pongono invece in un atteggiamento di dialogo e relazione, come se volessero riattivare gli scritti di Lalla Romano e interrogare nuovamente storie e vicende che la stessa autrice aveva volutamente lasciato incompiute, aperte. «La montagna era per me (come per la mamma) la bellezza»[5], si legge ne La penombra che abbiamo attraversato. Vicario, al posto di una prevedibile fotografia romantica con paesaggi montani al tramonto, pone accanto a questa frase l’immagine della cima robusta di una montagna, ritratta da vicino e senza indulgenza, tanto che i ruvidi costoni rocciosi finiscono per ricordare un volto rugoso, solcato dai segni di un tempo millenario. Priva di sentimentalismi, simile a un prelievo di realtà, tale fotografia rivela come lo sguardo di Vicario – in modo simile alla scrittura di Lalla – non punti all’estetismo ma a una puntuale, quasi spietata, restituzione del reale. È la montagna in sé, con la sua forza e la sua presenza, a emergere dall’immagine nella sua severa alterità. Entrambi dunque, fotografo e scrittrice, si autoimpongono un’assoluta essenzialità, una nitidezza stilistica di cristallino rigore, esente da ogni preziosismo. Non è ad esempio un caso che l’autore – in controtendenza rispetto alle mode del momento – abbia scelto di lavorare con le diapositive e non con i negativi a colori che permettono suggestive schiariture o evocativi toni morbidi e pastellati. Se la fotografia è una traccia della realtà – sembra volerci dire Vicario – che lo sia fino in fondo, senza fughe nell’inessenziale. Ma tale rigorosa operazione fotografica non sfocia in un’evidenza ingenua: ci rivela invece che anche la realtà più consueta è irriducibilmente altra da noi e dotata di un risvolto segreto che la rende inafferrabile. L’operazione di spietata vicinanza e di coraggiosa concentrazione compiuta sia dalla scrittura di Lalla, sia dalle immagini di Alessandro, non porta infatti alla creazione di opere dotate di un senso palese e identificabile. Come ha scritto Jacqueline Risset (citata dalla stessa Romano nella Premessa del suo libro Nei mari estremi): «Il movimento essenziale dello sguardo di Lalla Romano si può descrivere così: l’avvicinarsi accresce il mistero»[6]. Liberate dal flusso dell’esperienza, divenute immagine o scrittura, le cose si trasformano in impronte laconiche, aperte a una condizione antinomica e divergente: si offrono infatti come presenze, ma al contempo si ritraggono in una sorta di distanza silenziosa e sospesa; sono lì nella loro «cosità» eppure agiscono come metafore in cui il visibile diviene presenza di ciò che è invisibile. Come ricorda Merleau-Ponty, «vedere è avere a distanza»[7]: mentre l’occhio retto da una metafisica platonica vuole andare al di là del visibile fino a raggiungere una supposta pienezza dell’essere, lo sguardo interrogante sa che il vedere richiede discrezione per aprirsi a un altrove, all’irrappresentabile inscritto nella rappresentazione. E forse è proprio questa distanza, coniugata paradossalmente con un massimo di vicinanza, a creare nella scrittura di Lalla Romano e nelle immagini di Alessandro Vicario una sorta di spaziatura, uno scarto che le apre al mistero delle cose e all’interrogazione. Una spaziatura che l’autore sottolinea ulteriormente con i titoli delle sue immagini, dove oltre all’indicazione precisa del luogo fotografato, troviamo anche il giorno, l’ora e i minuti in cui ha realizzato lo scatto. Certo – come ci ha voluto spiegare Alessandro stesso – tale indicazione temporale intende rimandare, ancora una volta, alla natura «indicale» della fotografia, al suo essere un’emanazione del referente colto in un preciso istante; ciò non di meno essa funziona anche come una sorta di stacco, scarto, o distanziamento, tale per cui le fotografie finiscono per apparirci appunto come fotografie, e non più o non solo come immagini di qualcosa. Subito sotto le fotografie che rappresentano ora i ruderi dell’antica borgata Biancotti, ora il sentiero che porta al Castello, o la pietra sulla quale soleva sedere il panettiere Blin, noi troviamo questi titoli precisi fino all’ossessione che finiscono per modificare la nostra visione: essi infatti ci dicono, ci sottolineano che ciò che vediamo è solo quel che ha visto la macchina fotografica in un preciso ed esatto momento. Senza di essi avremmo potuto facilmente impadronirci delle immagini, per percepirle come posizionate in una temporalità scelta da noi. Mentre ciò che interessa a Vicario è sottolineare il continuo fluire del tempo: quell’inesorabile trascorrere – rivelato dalla macchina fotografica – che lo ha costretto a un ripetuto ritorno (le date indicano un tempo che va dal settembre 2005 al giugno 2006) in quegli stessi luoghi, dove a sua volta era tornata Lalla Romano per scrivere La penombra che abbiamo attraversato. In altri termini, Vicario vuole mantenere aperta quella sfasatura temporale che caratterizza anche le opere della scrittrice, dove «la memoria è in rapporto con qualche cosa di ‘altro’, che resta inevitabilmente staccato da chi ricorda»[8]. Egli in tal modo sembra voler trasformare in opera materiale e visibile alcune illuminanti riflessioni di Lalla che, in Ritorno a Ponte Stura, scrive: «Gli inizi ricominciano sempre, e non sono mai finiti. Nemmeno quando saremo finiti noi stessi. Anche il finire non finisce mai. E’ una spirale, non un cerchio. Tutto finisce, tutto anche ritorna. In questa circolarità o, piuttosto, come ho detto, spirale è anche il senso del ritorno»[9]. Un ritorno che ritorna ma non arriva mai al passato, si «limita» a farcelo riconoscere nella sua irraggiungibile alterità. Rigorosamente non nostalgiche, precise come una testimonianza, le immagini di questo autore, ancora una volta in sintonia con la scrittura di Lalla, non operano per aggiunte, ma per sottrazione. «Si suole dire che la mia scrittura è ridotta all’osso: la cosa sicura è che per me è più importante il taciuto del detto. Lascio molto spazio al silenzio»[10], racconta la scrittrice parlando del suo lavoro. Lei asciuga le frasi fino a farle apparire come ritagliate dentro il magma incontrollabile della vita, fino a rendere ogni parola ineluttabile, precisa come un frammento di realtà. Lui usa la fotografia come un prelievo, elimina ogni elemento superfluo, si pone di fronte alle cose come per non farsele sfuggire, le riprende da vicino e le ritaglia circondandole di silenzio. Tale insistito porre tra parentesi trasforma le frasi e le immagini di questi autori in densi frammenti sottratti al continuum dell’esperienza e alla linearità del nostro modo di pensare e vedere, per sospenderle in uno spazio silenzioso, aperto al mistero delle cose. È come se il loro dire con chiarezza fosse capace di fermarsi sempre prima che le parole e le immagini scivolino nella pretesa di dire e mostrare tutto. Essi rivelano e accennano al contempo, avanzano e si ritraggono, introducendo pause e slittamenti nella rappresentatività del linguaggio. Tale movimento denso di scarti e ripetizioni differite viene da Vicario ulteriormente raddoppiato nel momento in cui relaziona le sue immagini con alcune frasi di La penombra che abbiamo attraversato, o con le fotografie di Roberto Romano. Anche in questo caso, infatti, egli non illustra mai le frasi con una fotografia perfettamente corrispondente; e neppure riproduce esattamente le stesse inquadrature, gli stessi luoghi a suo tempo fotografati da Roberto Romano. «C’è una rispondenza tra il vento e lo scroscio del Cant, entrambi erano un fluire inesauribile», scrive Lalla Romano[11]. Accanto, il titolo della fotografia di Vicario recita: «Demonte, torrente Cant dal ponte sulla strada per Festiona. Martedì 31 gennaio 2006, ore 13.06». Già, ma cosa mostra la fotografia? Un riquadro di neve ghiacciata, solcata dalle ombre bluastre dei rami, con al centro una nera fenditura. Dov’è il torrente Cant? È lì, concretamente davanti ai nostri occhi, ma al contempo è solo accennato. Dobbiamo infatti immaginarci la forza del suo «fluire inesauribile» dalla tenacia con cui ha sciolto, anche se di poco, la spessa coltre di neve che lo ricopre. E ancora: vediamo un’immagine di Roberto Romano con la piccola Lalla seduta davanti alla ringhiera del balcone di casa. Accanto la fotografia di Vicario riporta: «Demonte, esterno della casa dei Romano. Venerdì 26 maggio 2006, ore 17.50». E nuovamente il nostro voyeurismo rimane inappagato, si scontra letteralmente contro il dettaglio di un muro perimetrale dell’abitazione dei Romano. Unica concessione estetica, l’ombra di una ringhiera che taglia l’immagine in diagonale e ci rimanda, quasi con pudore, al balconcino di casa Romano: un’ombra che sottolinea non solo la temporalità fugace colta dal suo scatto delle ore 17.50, ma soprattutto quell’avere a che fare della fotografia con la memoria e con l’esperienza malinconica della perdita (poiché quel che la fotografia ci mostra è sempre un «è stato» irraggiungibile). Insomma, le immagini di tutta questa ricerca, grazie al loro essere, per così dire, ritagliate e raccolte, introducono una pausa nella fretta del vedere, istituiscono uno spazio di silenzio. Come già nelle opere di Lalla Romano, è proprio questo «non dire tutto» ciò che le rende allusive, attraversate da un chiasma che le sottrae alla padronanza di chi le ha create, per donarle, enigmatiche e altere, agli spettatori.
[1] Lalla Romano, Ritorno a Ponte Stura,a cura di Antonio Ria, Einaudi, Torino 2000, p.126.
[2] Ivi, p.127.
[3] Ivi, p. 126.
[4] Francesco Porzio, Su «Romanzo di figure», in Intorno a Lalla Romano, p. 343: citato nell’Appendice di Antonio Ria, Scrittura e fotografia, in: Lalla Romano, Nuovo Romanzo di figure, Einaudi, Torino 1997.
[5] Lalla Romano, La penombra che abbiamo attraversato, Einaudi Tascabili, Torino, 1994 (I ed. 1964), p. 22.
[6] Jacqueline Risset, cit. in Lalla Romano, Premessa a Nei mari estremi, nuova edizione, a cura di Antonio Ria, Einaudi Tascabili, Torino 2000, p. VIII, nota 3.
[7] Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, SE, Milano 1989, p.23.
[8] Giulio Ferroni, Postfazione a Lalla Romano, La penombra che abbiamo attraversato, Tascabili Einaudi, Torino 1994, p.216.
[9] Lalla Romano, Ritorno a Ponte Stura, cit., p. 5.
[10] Lalla Romano, Semplicemente Lalla, intervista a cura di Grazia Cherchi, L’Unità/Libri, 4 luglio 1994.
[11] Lalla Romano, La penombra che abbiamo attraversato, cit., p.72.
Gigliola Foschi, 2006
[1] Lalla Romano, Ritorno a Ponte Stura,a cura di Antonio Ria, Einaudi, Torino 2000, p.126.
[2] Ivi, p.127.
[3] Ivi, p. 126.
[4] Francesco Porzio, Su «Romanzo di figure», in Intorno a Lalla Romano, p. 343: citato nell’Appendice di Antonio Ria, Scrittura e fotografia, in: Lalla Romano, Nuovo Romanzo di figure, Einaudi, Torino 1997.
[5] Lalla Romano, La penombra che abbiamo attraversato, Einaudi Tascabili, Torino, 1994 (I ed. 1964), p. 22.
[6] Jacqueline Risset, cit. in Lalla Romano, Premessa a Nei mari estremi, nuova edizione, a cura di Antonio Ria, Einaudi Tascabili, Torino 2000, p. VIII, nota 3.
[7] Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, SE, Milano 1989, p.23.
[8] Giulio Ferroni, Postfazione a Lalla Romano, La penombra che abbiamo attraversato, Tascabili Einaudi, Torino 1994, p.216.
[9] Lalla Romano, Ritorno a Ponte Stura, cit., p. 5.
[10] Lalla Romano, Semplicemente Lalla, intervista a cura di Grazia Cherchi, L’Unità/Libri, 4 luglio 1994.
[11] Lalla Romano, La penombra che abbiamo attraversato, cit., p.72.