Storie di pietre, di muri e cascinali

Muri di pietre a secco che si ergono slabbrati e solitari tra gli alberi, tra i prati di montagna; finestre che illuminano stanze vuote, invase dai calcinacci, prive di vita da anni, da decenni; tetti sfasciati, porte chiuse che non proteggono più niente e nessuno. Attorno a queste case diroccate sono scomparsi anche “gli aratri di legno, le slitte, le masserizie”, così come tra le macerie non si possono più trovare “le scartoffie di un antico «archivio familiare»”, né “l’epistolario completo di un alpino scomparso sul fronte russo”[1] che Nuto Revelli aveva scovato negli anni Settanta, durante i suoi molti viaggi nella Valle Stura di Demonte, compiuti proprio per ridare voce agli ultimi contadini, a quello che lui avrebbe chiamato “il mondo dei vinti”. Quelli della ricerca di Revelli erano gli anni in cui, tra le “povere baite soffocate dalle ortiche, dai rovi, dai sambuchi”[2], si trovavano ancora pochi, ultimi abitanti: vite superstiti trascorse a sgobbare tra i campi e a vincere la miseria. Ancora si potevano incontrare vecchi solitari, spesso nati a fine Ottocento, che resistevano e raccontavano le loro storie, felici di trovare in lui una persona protesa ad ascoltarli, a dare valore ai ricordi, belli o brutti che fossero. Nel 2007, invece, quando Alessandro Vicario ha fotografato le case di pietra e le grange ormai abbandonate dei borghi e dei villaggi della Valle Stura, a testimoniare quel passato erano rimasti in pochissimi. Le borgate erano ormai del tutto spopolate. Ma a Chiotti Soprano, il fotografo si è imbattuto in un pastore solitario, Angelo Bruno, unico e ultimo abitante della borgata. A lui è dedicato questo libro. E neppure era iniziato quel percorso di recupero che avrebbe poi permesso al borgo di Paraloup di tornare alla vita (il restauro è stato ultimato nel 2013) per trasformarsi nel simbolo e nella testimonianza di una civiltà perduta, che non solo fa parte della nostra storia, ma rappresenta valori e radici da recuperare per guardare a un futuro dove la montagna può tornare a costituire una risorsa. I primi anni del 2000 erano dunque un periodo di intervallo, dove le case totalmente svuotate dall’esodo della montagna mostravano solo assenza di vissuti, solo storie dimenticate, inesorabilmente trascorse e quindi sempre più difficili da comprendere, da immaginare. In altri termini, quella era la fase storica di una distruzione ormai quasi del tutto compiuta dopo un declino lento e irreversibile, una vera “fine d’epoca”, che però ha dato a Vicario l’opportunità di documentare la realtà di abitazioni e stalle abbandonate: un mondo estinto e da lui narrato proprio prima che sopraggiungessero altri possibili mutamenti. Grazie alle sue fotografie vediamo dunque i resti miseri e silenti della borgata montana di Paraloup – il che fra l’altro ci permette di notare quanto siano stati rispettosi e al contempo innovativi gli interventi di recupero che l’hanno trasformata in un significativo centro culturale e d’accoglienza. Le sue immagini sottilmente documentarie hanno dunque il valore di una precisa testimonianza visiva avvenuta in un momento particolare della storia della valle. Ma c’è dell'altro. Qualcosa infatti si cela sotto l’apparente semplicità e sobrietà delle sue inquadrature, che volutamente rifiutano l’estetica romantica delle rovine, ogni bellezza appariscente e i colori saturi e brillanti tipici delle fotografie che vogliono sollecitare l’immaginario dei turisti. Rispettose e antiretoriche queste immagini sono infatti protese a dare un volto e una voce alle rovine che ancora resistono contro le intemperie e le ingiurie del tempo che passa. Per questo, accanto a immagini più descrittive, con precise vedute d’insieme, Vicario si avvicina fino a “prelevare” frammenti di mura e di vecchie travi rugose segnate dal lavoro dell’uomo e dalla loro relazione con la natura; poi entra nelle case abbandonate per mostrare pareti scrostate e vecchi forni, che sembrano voler raccontare le storie di chi vi aveva vissuto. Come già in varie altre sue ricerche, Alessandro Vicario cerca di raccogliere con tenacia una serie di segni e tracce concrete, anche se magari sommesse, ma capaci di sollevare interrogativi ed evocare il passato, i gesti e i vissuti di chi per anni aveva abitato quei luoghi. Chiesa. Ultima messa 7 luglio 1943 – appare ancora scritto sulla parete di edificio ormai privo di tetto. Il messaggio è chiaro, lapidario, ma al contempo ci invita a chiederci e a immaginare che mai sarà accaduto in quei giorni lontani della guerra: sarà stata quella chiesa distrutta dai fascisti e dai tedeschi per rappresaglia? Forse sì, o forse no, perché ovviamente la lotta partigiana ebbe inizio poco più tardi, nel settembre del 1943. Allora che mai accadde alla chiesa durante quel mese di luglio? Non lo sappiamo, e questa ignoranza ci inquieta, ci interpella. Alessandro Vicario osserva anche muri sbrecciati, facciate corrose che si ergono inaspettate tra i boschi, porte di legno sprangate sul nulla. Si pone di fronte, si avvicina come se volesse cogliere la loro forza, la loro dignità, nonostante l’incuria degli uomini e il trascorrere del tempo che aiuta la natura a riprendere possesso delle case abbandonate. Una natura di cui pure queste stesse costruzioni un tempo si erano nutrite, perché tutto lì, anche i manufatti, faceva parte integrante del paesaggio naturale: le pietre dei muri, i tetti di paglia infittiti dal muschio che ancora resistono a La Comba, le travi di legno contorte e nodose. Ora però la natura stringe in un assedio inesorabile questi ultimi ruderi, schiacciandoli sotto cumuli di neve, accerchiandoli con erbacce, ortiche, radici, rami invadenti. Rami e tronchi che le immagini di Vicario mostrano a volte con attenzione e chiarezza, a volte in modo indiretto, attraverso la loro ombra che si staglia sui muri. E così la memoria, l’immaginazione vengono sollecitate non solo dalle poche tracce visibili di questo mondo andato, non solo dagli sparsi elementi superstiti mostrati in primo piano, ma anche da ciò che non è direttamente visibile, che rimane fuori inquadratura e si fa presente quindi solo come un’ombra. Tali ombre, oltre a rendere presente l’assente, diventano allora metafore della fugacità del tempo e sembrano volerci indicare che il nostro sguardo deve sapersi spingere al di là delle apparenze manifeste. E’ come se le immagini di Vicario ci dicessero che le umili pietre delle case abbandonate della valle Stura non sono solo pietre, ma tracce da cui partire per esplorare e interrogare il passato. Questo invito a scavare con lo sguardo e la memoria, a saper prestare ascolto alle ultime tracce del tempo che fu, viene ulteriormente sottolineato dalla presenza, accanto ad alcune immagini, di brevi frasi tratte dal racconto del pastore Angelo Bruno (intervistato nel corso del 2007 da Roberta Marocco) e dal celebre libro di Nuto Revelli, Il mondo dei vinti. Citazioni dai racconti dei contadini intervistati, e che qui – nel lavoro di Vicario – non intendono spiegare le immagini ma interloquire come un controcanto, intervenire come “voci” che emergono quali suoni del passato, per ridare ancora vita a porte sbarrate e case diroccate. “Voci” intense, senza fronzoli, che puntano dirette ai fatti, descrivendoli con una franchezza e una semplicità cui oggi non siamo più abituati. Usavamo il petrolio come luce, come illuminazione: il petrolio e il sale erano gli unici prodotti che compravamo. Mio nonno mi raccontava di aver vissuto ancora peggio. Nel secolo scorso c’era chi mangiava le serpi: le tagliavano, le condivano con un po’ di sale rosso, di sale da pastorizia e con le patate le serpi erano buone – racconta ad esempio Pietro Bagnis, classe 1890. Sono poche parole, eppure bastano a rivelare un mondo, un modo di vivere e di sentire. Accanto a tale frase vediamo tre immagini a loro volta essenziali e dirette: quella di una stanza vuota dove si apre un’unica finestra luminosa, poi un tetto scoperchiato, e infine una porta di legno ripresa frontalmente. Le parole di Pietro Bagnis non sono quindi in stretta relazione con le fotografie, eppure sembrano risuonare fra quegli spazi disadorni come un’eco lontana, o rifulgere come un vago riverbero che li illumina di sbieco. E in questo modo le parole donano a tali spazi una consistenza, una corposità in più, per quanto fuggevole e vaga essa sia. L’ombra di un ricordo lontano, lo scarno dettato di una voce antica tornano fuggevolmente ad animare le stanze vuote dove non cammina più nessuno. E lo scomparso “mondo dei vinti” sembra di nuovo qui fra noi, anche se solo per un momento presto perduto. Testi e immagini si rimandano quindi vicendevolmente, costruiscono una trama complessa, dove lo sguardo del fotografo e la voce dei narratori s’incontrano nel nome della memoria.
[1] Nuto Revelli, Il mondo dei vinti, Einaudi, Torino, 1977, p. XXV.
[2] Nuto Revelli, op. cit. p. LX.  

Gigliola Foschi  (2015)

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